Lo spazio in costruzione era una penisola vuota, vetrata, minimalista, aggettante sulla via Giacosa dall’edificio della Fondazione; un ibrido architettonico alla sua terza rivisitazione stilistica in 120 anni. Tutto intorno, il disordine polveroso del cantiere non lasciava indovinare la potenzialità estetica del luogo.
“Qui vogliamo il ristorante; pensiamo alla gastronomia tradizionale, qualcosa che evochi Torino, nella sede storica della Fondazione Agnelli, e deve essere anche un luogo contemporaneo, perché qua dentro sorgerà il Talent Garden, frequentato geek, italiani e stranieri, millennials, cresciuti con la tastiera in mano…”.
Questo il briefing, su cui ci siamo esercitati per sei mesi, per poi costruire, in soli 15 giorni, la più straordinaria e innovativa gastronomia mai vista.
Molti valori in campo, da raccontare in una storia sola. La “Gastronomia” della tradizione culinaria del Belpaese; la mano di uno chef stellato; una città votata all’avanguardia dai primi del ‘900 a oggi; la cultura di una fondazione che ha un ricchissimo archivio fotografico; la partnership con l’archivio immagini de La Stampa, la vocazione per la tecnologia; un pubblico di millennials software-addicts.
Un progetto in continua evoluzione anche nel nome: prima “Archivio Bistrot”, poi “Ristorante Giacosa”, poi “Giacosa 38”, infine “Gastronomia Torino”. Lineare, semplice, come semplice doveva sembrare il risultato.
Ma come sarebbe stato il ristorante? Un self service digitale al posto dei camerieri, box di consegna con monitor trasparenti come nei fast food automatizzati d’oltreoceano, cucina italiana tradizionale, preparazioni da chef.
Le nostre vetrine-monitor avrebbero raccontato una storia per immagini, tutte d’autore, tutte di Torino, che si sarebbero spalancate ai commensali, offrendo loro un piatto gourmet appena ordinato su un touch pad, o sullo smartphone.
Molte le competenze messe in rete: architettura, ingegneria, storytelling, grafica e senso artistico.
Dai sensori degli sportelli-touch screen; all’hardware dei box; all’architettura del software; alla grafica delle interfacce; al design della parete attrezzata con 16 box di consegna e 26 monitor; al design di ogni tavolo; alla scelta o al disegno delle sedute; alla definizione accurata di ogni materiale e finitura; alla soluzione di ogni problema ergonomico per clienti distratti o disabili; alla qualità degli scatti fotografici e della loro post-produzione; alle sequenze video dell’intera parete accordate per temi e palette cromatiche; al packaging delle stoviglie doverosamente compostabili.
Tutto è stato invenzione e ha richiesto una soluzione particolare: oggetti fuori scala come un tavolo di ardesia naturale da tre metri e mezzo trasportato da dodici persone, pareti di rete metallica color del rame usate come vetrine da esposizione, corpi illuminanti ad hoc, verniciature speciali, certificazioni.
Ma, più di tutto, colpisce la parete di servizio da 11 x 3 metri piena di monitor che sembra il ground control della NASA, ma che trasmette immagini aggraziate dove, invece dell’Apollo 11, svetta la Mole Antonelliana dalla finestra di un appartamento torinese, dove bambini giocano con le fontane di Venaria, clienti multicolori scelgono la frutta a Porta Palazzo, Filippo Juvarra ci seduce da una vecchia foto sgranata della Basilica di Superga, signorine anni ’50 e ’60 posano su graziose Topolino mentre i loro coetanei dei nostri giorni fanno l’happy hour ai Murazzi.
E la sorpresa è il servizio: ordinare sul touch pad delle casse automatiche; vedere il proprio nickname comparire sul grande monitor della lista d’attesa e poi sul monitor del box assegnato, che appena sfiorato col dito si apre elegantemente, e, in una luce algida da astronave di Stanley Kubrick, quello che abbiamo ordinato si presenta in stoviglie eco-compostabili, anch’esse decorate con le immagini di Torino, per essere portate al nostro tavolo. Qui, sollevato il coperchio, non troviamo patate fritte ma le delizie gourmet di uno chef stellato, a un prezzo da fast food.